NELLA TEMPESTA
2011<2068 AnimalePolitico Project
La nostra immaginazione utopica si è talmente atrofizzata nell’atmosfera asfissiante di una predicazione apocalittica, che sembra molto più facile immaginare un mondo morente che un mondo migliore.
Ma è giustamente quando l’utopia diviene inimmaginabile che è necessaria. “Les Sentiers de l’Utopie”, Isabelle Fremeaux et John Jordan, La Découverte, Parigi 2011
Genesi del progetto
«Cosa succederà adesso» è la domanda sollevata in chiusura di Alexis. Una tragedia greca, il nostro ultimo spettacolo dedicato alla ricerca delle tracce di Antigone nel contemporaneo. Alexandra Sarantopoulou, in scena, afferma che, per lei, la chiave della risposta è in una scritta che alcuni ragazzi hanno fatto su un muro di Atene:
Ερχόμαστε από το μέλλον NOI VENIAMO DAL FUTURO
Quello che è successo in Nord Africa, che sta avvenendo in Grecia e si sta diffondendo in tutta Europa e oltre, è qualcosa che molti degli utopisti e scrittori della science fiction non avevano così lucidamente valutato: ovvero la presenza di una massa estesa e critica di giovani, anche istruiti, che decidono di svegliarsi e spostare l’asse, collocandosi fuori dalle coordinate prestabilite…
Si collocano nel futuro, perché sono il futuro, un futuro che Huxley e Orwell avevano dipinto a fosche tinte, ma che invece, forse, riserva qualche sorpresa?
Mai avremmo immaginato che la ricerca fra autori di Science Fiction – perché è su Philip Dick e Aldous Huxley che inizialmente intendevamo lavorare – ci avrebbe all’opposto catapultato nel ‘600… Ma così è stato, quando abbiamo scoperto che il titolo dell’opera di Huxley, Brave New World (Il Mondo Nuovo), è una citazione di Shakespeare.
D’impulso, e senza rete, ci siamo gettati Nella tempesta leggendo e rileggendo quest’opera indefinibile e misteriosa, per trovarvi – trasfigurate – infinite coincidenze con le domande che ci avevano spinto a cercare, nelle prefigurazioni future, strumenti per leggere l’incertezza presente.
Ci siamo messi in viaggio, consapevoli delle insidie e degli abbagli, ma determinati a perseguire un’idea di teatro che ci scaglia dentro punti caldi del pianeta, per captare forze telluriche e accumulare energie necessarie a vivere «In un mondo in cui non ci si può adattare e a cui non si può rinunciare, as citizens, as society-makers.» (Paul Goodman)
Le tempeste
I cried to dream again
Caliban “The Tempest”, W. Shakespeare
Già dalle prime righe dell’opera compare con evidenza una domanda sul potere e la perdita di controllo: chi può governare? O meglio, la sovranità è necessaria? Where is the master?
Questa domanda rimbalza fra Gonzalo e il nostromo della nave in balia di onde furenti di fronte alle quali le parole di un capo non servono più a nulla…
What cares these roares for the name of King!
Se il potere delle Onde non si governa, è forse più importante allora ricorrere all’astuzia fisica del serfare fra esse, del saper lavorare con l’onda… lasciarsi trasportare per poi fronteggiarla, in solitudine o fabbricando scialuppe. Costruire insieme per meglio contrastare nuovi tumulti, più livelli di scompiglio e tante altre tempeste, sia sul piano individuale che di sistema: la Macro-tempesta economica in cui siamo immersi, sempre riconducibile all’uso sconsiderato del potere finanziario… ma anche l’eterno conflitto fra generazioni, fra padri e figli, (già affrontato nel percorso sull’Antigone)…
E last but not least, la tempesta che sconvolge chi, rovesciando il rapporto tra margini e visione centrale, prova a mettere in discussione il principio stesso del rappresentare nel suo possibile rapporto di sovversione rispetto al reale e al politico.
L’isola
Da questo punto di vista la nostra tempesta è diventata immediatamente quella di un universo socio-politico tutto da ri-fondare nel contatto con la diversità di un’isola aliena e dello straniero che la abita. L’isola nell’immaginario rinascimentale è l’utopico mondo alternativo all’autorità, all’oppressione, all’usurpazione… proprio come la descrive Gonzalo: Niente più confini, nessun sovrano, tutto in comune!
E la navigazione evoca, come scrive Foucault “l’artificiere” guida di questo progetto, immagini di marginalizzazione e spostamento o rimozione, basti pensare alle “Navi dei pazzi” o alle disperate “carrette del mare” cariche di viaggiatori-migranti che oggi vanno alla deriva sull’isola di Lampedusa (da molti critici individuata proprio come “possibile isola” scespiriana).
Il nostro viaggio è allora partito da Cartagine, da dove sono salpate le navi della tempesta, per inseguire una delle possibili rotte dei migranti che – come scrive Adriano Sofri – «Non chiamo disperati, perché occorre sperare forte per mettersi in viaggi come questi».
Da Tunisi a Lampedusa quindi, all’ascolto di racconti di viaggi lunghissimi cominciati in Africa subsahariana, della disumana detenzione in Libia… Di sogni e speranze verso un “Mondo Nuovo” che alla fine si è rivelato circoscritto al recinto di un CIE, o al terribile Palazzo Salaam di Roma – ultima tappa del nostro viaggio – dove vengono “depositati” i richiedenti asilo politico “proprio come animali”.
Ma négritude n’est ni une tour ni une cathédrale
elle plonge dans la chair rouge du sol
elle plonge dans la chair ardente du ciel
elle troue l’accablement opaque de sa droite patience.
“Cahier d’un retour au pays natal”, Aimé Césaire
I personaggi
How beauteous mankind is!
O Brave New World that has such people in’t!
“The Tempest”, William Shakespeare
Mettendo in atto un play-within-the-play, Prospero – come Shakespeare – sa che ormai non è più possibile essere soltanto attori o spettatori e questa alternanza o coesistenza di ruoli è indicatrice della incerta, rischiosa, mobilità della vita in una direzione eminentemente politica.
La drammaturgia allora si spezza su più fronti; lo studio dei meccanismi del “controllo dei corpi” ci ha sospinto a sottrarre il personaggio di Prospero dalla scena per collocarlo invisibilmente dietro al monitor di una camera di sorveglianza, o un faro cerca-persone. È “interpretato” da una testa-mobile che agisce come un sesto attore sul palco…
I riflettori sono più pericolosi perché accecano con la luce:
il cono dei fari cercapersone insegue, fruga, caccia, stana, poi circoscrive e infine uccide ogni desiderio di vita e ogni amor di conoscenza. Ma non per questo dobbiamo credere alla irreversibilità dei processi, a una cupa tempestas che incomberebbe sul presente e ne oscurerebbe completamente il cielo…
“Luce rara. Una lettura politica di Come le lucciole di Georges Didi-Huberman”, Monica Centanni
E il conflitto si estremizza, anche perché scegliamo, come contro-testo, la rabbiosa poesia del martinicano Aimé Césaire, che, con Une tempête, sposta il baricentro in Africa e da voce al fiero desiderio di rivalsa di Calibano, che accomuna a Malcom X: la relazione di dipendenza “reciproca” che la dinamica colonizzatore-colonizzato genera si acuisce, sempre sul crinale dell’antica controversia fra violenza e non violenza.
Perché ci sono molte tempeste, no? E la mia non è che una in mezzo a tante… (Aimé Césaire)
Ariel/Silvia muove invece il fuoco dell’inedito dialogo con Calibano dentro il processo creativo stesso di una compagnia indipendente come la nostra, dove è impossibile tener separato teatro e vita. È allora inevitabile che anche il personaggio inconsapevole di Miranda entri in corto circuito con la reale biografia dell’attrice che l’interpreta – che è parte attiva del Teatro Valle Occupato – e, nella nostra rilettura, e si faccia portavoce proprio di chi è coinvolto nella resistente microfisica libertaria dei luoghi “occupati” o diversamente gestiti, che sostengono questo progetto.
Tutti gli attori entrano nell’opera attraversando le tempeste personali.
Per Glen, tempesta è avere dieci anni e vedere. È un crollo, un incendio, un camion che sfonda i muri di un’ambasciata in Albania… Tempesta è scegliere se partire o rimanere. E Glen ha scelto di partire, per l’Italia, da clandestino.
Tempesta è anche riascoltare la voce di Judith Malina del Living Theatre – con cui abbiamo aperto il progetto AnimalePolitico nell’estate 2011- che parla della necessità dello scatenare tempeste, non di proteggersi, proprio mentre l’uragano Sandy si abbatte su New York. Eravamo con lei allo storico teatro del Living in Clinton Street, a presentare The Plot is the Revolution, quando è arrivato. Con l’eco della sua voce si pianificano piccole tempeste da far esplodere fuori dal teatro, nella città.
Basta rompere l’ordine quotidiano, come trascinare un albero per le strade… Silvia/Ariel sceglie l’indipendenza e diserta, abbandona il palcoscenico e il suo Maestro per gettarsi nel Rumore della Realtà.
E Calibano inizia una rivolta solitaria, rivendicando la sua isola, la sua libertà.
Ma quale libertà?
Il testo è tradito. Lo spettacolo si spacca. L’attore che simula Prospero abbandona il mantello. Il grande Panopticon del palco, dove “ciascuno al suo posto è visto, ma non vede” si svuota.
Resta solo una domanda e la timida esortazione di Miranda, al pubblico.
Nel silenzio.
Ho una diversa idea di universale.
Si tratta di un universale
ricco di tutto quello che è particolare,
ricco di tutti i particolari che ci sono,
l’approfondimento di ogni particolare,
la coesistenza di tutti loro.
Aimé Césaire
La costruzione di una Zona Altra
E qual è il primo Rifugio per un corpo indifeso dopo un uragano, un naufragio o un conflitto bellico?
La risposta più immediata è stata: una coperta.
E la coperta è anche l’oggetto più semplice da raccogliere e re-distribuire nelle città. Abbiamo così individuato “la scenografia” di Nella Tempesta: solo coperte che recuperiamo sul luogo della rappresentazione. Non vogliamo più sprecare denaro in “scenografie morte” ma lavorare con materiali che al termine della tournée (e anche di ogni data) possano poi essere “donati” a spazi e associazioni indipendenti della città stessa che ne hanno reale bisogno.
Invitiamo quindi i cittadini-spettatori ad arrivare a teatro portando delle coperte da casa…
Perché non provare a trasformare il contratto teatrale in una formula aperta di reciproco scambio, andando a destrutturare lentamente, dall’interno, la prossemica della relazione tra chi agisce e chi guarda? Proviamo a utilizzare la “temporaneità” dell’evento scenico per creare una Zona Altra, a partire dalle nostre stesse esperienze di vita nella comunità nomade, vagabonda, instabile… e corsara che, in quanto artisti un po’ “sradicati”, stiamo condividendo.
Noi, “la Comunità di quelli senza comunità, senza la Noi-Comunità” ci siamo resi conto che la più veritiera forma di condivisione (al di là dell’attivismo politico) è quella che viviamo sul palco, con gli spettatori di ogni città in cui ci spostiamo, nel tentativo di costruire eterotopie temporanee.
Sta a noi trasformarci in lucciole e riformare in noi stessi una comunità del desiderio, comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi.
“Come le lucciole”, Georges Didi-Huberman
In quanto “animali politici” creiamo dunque in scena un’esperienza di riappropriazione, sia degli spazi, sia dell’esperienza in sé, sempre immersi “nella tempesta” scespiriana dove, ricordiamolo, non si inscena un mondo che finisce, ma, come scrive Agostino Lombardo nella prefazione alla traduzione italiana, un mondo che comincia.
La proposta di un teatro che non sia spettacolo ma esperienza, non imitazione o riflesso o sospensione o fuga dalla vita ma vita esso stesso.
Agostino Lombardo dalla prefazione italiana a “La tempesta” di W. Shakespeare, ed. Garzanti