O mia città o mia stirpe o mio mondo,
una vela che sbatte…
Il vento cade e tu sprofondi:
tu non eri che vento.
(Le Troiane di J.P. Sartre)
Entriamo negli scenari post umani di “un mondo a venire” dove echeggiano i latrati/parole di Ecuba, dopo la disfatta di Troia, dopo la sua drammatica deportazione… Nell’Ecuba di Euripide Polimestore le predice che si trasformerà in una “cagna nera con gli occhi di fuoco”: Silvia Calderoni incarna questa donna agguerrita, ne traduce la disperazione e la furia che partoriscono una nuova lingua, non più articolata in solide strutture grammaticali, ma in tessiture sonore onomatopeiche grondanti di echi primordiali. Tutta la tragedia greca, del resto, testimonia una posizione arcaica in cui l’uomo e l’animale non hanno neppure bisogno di metamorfosizzarsi, perché sono l’uno nell’altro, per mescolanza e contatto/contagio. Ecuba è la cagna nera dai denti taglienti: la vediamo balzare, contorcersi, venire alla luce sotto i nostri occhi per tentare di comunicare con il circolo degli “umani” con la «lingua minore» – di cui parlano Deleuze e Guattari nel loro libro su Kafka – cioè “una lingua che viene dopo il potere e la violenza, una lingua che non dice più al mondo come deve essere, ma che accompagna il mondo che c’è, lo segue e lo solleva (…) è la lingua misteriosa che parlerà l’umanità dopo che tutto è bruciato. Una lingua terra terra, né umana ma nemmeno non umana, polverosa e umile.” (Felice Cimatti, dalla recensione di Tutto Brucia)
Ora c’è solo la cenere, e i corpi. Ma il terreno è sgombro. Qualcosa può cominciare.