L’Ospite

2004

di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

tratto dal romanzo “Teorema” di Pier Paolo Pasolini

con Dany Greggio, Emanuela Villagrossi, Frank Provvedi, Caterina Silva, Daniele Quadrelli, Catia Dalla Muta

drammaturgia Daniela Nicolò

editing audio Enrico Casagrande

riprese e montaggio video Simona Diacci

motion graphic p-bart.com

scenografie Fabio Ferrini

costruzione scenografica Plastikart di Istvan Zimmermann & Amoroso

fonica Carlo Bottos

responsabile tecnico Michele Altana

costumi Ennio Capasa per Costume National

consulenza letteraria Luca Scarlini

ufficio stampa e promozione Sandra Angelini

in collaborazione con Giorgio Andriani

direzione della produzione e amministrazione Marco Galluzzi

in collaborazione con Cronopios

logistica Roberta Celati

produzione Motus e Théâtre National de Bretagne, Rennes (Francia)

in collaborazione con Festival di Santarcangelo, La Ferme du Buisson – Scène National de Marne-La-Vallée, Teatro Sanzio di Urbino e Teatro Lauro Rossi di Macerata e A.M.A.T

ed il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna

© Federica Giorgetti

Su un maxischermo si vedono le immagini di un uomo che cammina nel deserto. Lo stesso uomo che esce dall’auto sul proscenio vestito da perfetto borghese. Lo spettatore è subito calato nella finzione del teatro. Ma poi accade qualcosa, un elemento straniante lo allontana per ricondurlo alla realtà del teatro: ad uno ad uno, gli attori passeggiano sul palco e le loro voci off raccontano come si sono avvicinati al personaggio che interpreteranno.

Dany Greggio è Paolo. Mentre indossa un paio di pantaloni, la sua voce registrata afferma: «Il padre non mi sta antipatico (…). Il padre è un modello, l’ospite è una figura inesistente».
Daniele Quadrelli è Pietro: «Il figlio è un impotente».
Caterina Silva è Odetta: «Il padre è l’unica figura maschile a cui lei dedica le sue attenzioni».
Emanuela Villagrossi è Lucia: «Lei è l’altra faccia del potere e dell’istituzione. La sua bellezza cosciente è borghese. La bellezza incosciente è sacra».
Catia Dalla Muta è Emilia: «è un personaggio per me sconosciuto… non so come mettermi in contatto con lei».

Non appena si alza un telo di opaca trasparenza, lo spettacolo ha inizio. Un radiogiornale diffonde la notizia della bomba alla stazione di Bologna. Al centro del palco un tavolo. Sta per consumarsi una cena. Lucia, in tailleur bianco, bacia i figli che prendono posto al desco. Paolo arriva per ultimo e sedendosi, con sorriso paterno e voce ironica, afferma «Tutto ciò che offre il mercato, potete mangiarlo senza scrupolo di coscienza».
Il pasto si consuma nella più serena giovialità: al racconto di una manifestazione da parte del padre, segue una barzelletta detta dal figlio. Ma pare tutto troppo affettato per poter durare: quando la cameriera consegna un biglietto, lo sguardo di Paolo si incupisce: «Sarò da voi domani».
In questo momento compare sul proscenio l’Ospite, interpretato da Frank Provvedi: «Fare l’ospite sarà un bel viaggio spirituale. È un personaggio ambiguo, assente e presente allo stesso tempo».

La scena è composta da tre pareti video che mostrano una villa con giardino. L’ospite arriva e tutti i componenti della famiglia sembrano morbosamente attratti dal nuovo venuto. Pietro gioca con lui sull’erba. Lucia prende il sole in bikini ma lo osserva da lontano. Paolo legge con lui un libro. Odetta lo fotografa. Emilia, falciatrice alla mano, taglia l’erba con fare circospetto.
Ad uno ad uno cadranno tra le braccia dell’ospite, rimanendone irreparabilmente cambiati. Quando il ragazzo lascerà la villa – per sempre – i membri del nucleo famigliare avranno perso e guadagnato qualcosa. E allora li troviamo disposti come pedine sul gelido pavimento, nudi come vermi a fare i conti con il proprio cambiamento. Sterili figurine ovattate in uno spazio troppo grande e incapace di gestire i loro deliri. Il radiogiornale annuncia le lotte operaie. È così che la grande storia entra nella piccola storia. Lucia si prostituisce, Pietro si rifugia nello studio, Odetta viene internata, Emilia fugge al paese natale. Mentre chili di spazzatura cadono a terra, Paolo defeca sul proscenio e poi lo si vede in video, perso nel deserto, abbandonato da ogni bene terreno, urlare di un urlo «destinato a durare oltre ogni possibile fine».

presentazione di Patrizia Bologna

Note di regia

«Ingenue speranze, miti poetici di un’anima, che, in realtà, è lei, l’ospite, lei la povera visitatrice che nessuno conosce, e per nessuno ha diritto di trovarsi qua».
(Pier Paolo Pasolini, da Poesia in forma di rosa)

Vagando di arte in arte, da un mezzo espressivo all’altro, sempre alla ricerca di qualcosa di più autentico, vitale, dentro quel qui ed ora tanto enunciato e rincorso in tredici anni di attività, un altro incontro: Pier Paolo Pasolini.
Dopo il progetto Rooms, con cui si è intrapresa un’anomala ed inedita ricerca sulla parola, su un’oralità sofferta e sempre in bilico fra l’afasica rinuncia da un lato (Twin Rooms), ed il gusto per la ritmica del testo (Splendid’s di Jean Genet), scegliamo di rivolgerci a quel “poeta di cose” che è Pier Paolo Pasolini… al suo caustico sguardo critico sul contemporaneo. Per Motus è poi doveroso interrogarsi, tramite il teatro, sul momento politico attuale, ora che tante riflessioni sulla società dei consumi e la vita politica in genere elaborate da Pasolini stanno assumendo un’attualità sconvolgente, quasi profetica.

Scegliamo di dar voce alla sua voce, di ospitare nuovamente le sue grida d’allarme, amplificandole anche, con una peculiare commistione di mezzi che, forse, ai tempi delle sue esperienze teatrali, non erano concepibili.

La sollecitazione originaria proviene dal misterioso personaggio-protagonista di Teorema, il film e soprattutto l’omonimo romanzo del ’68, che forse più amiamo nella vasta e varia produzione artistica di Pasolini. Ci ha colpito l’atmosfera provocatoria e profetica del testo, così terribilmente attuale per il continuo interrogarsi sull’inconsistenza, anche spirituale, della vita borghese, assunta oramai a schema di relazione totalizzante, a tutti i livelli sociali.

«Mai l’Italia fu più odiosa./ (…) sì, anche il comunista è borghese. / Questa è ormai la forma razziale dell’umanità. (da Il poeta delle ceneri, 1966).

È di quei giorni la scelta radicale di iniziare a scrivere di situazioni borghesi, personaggi per lui odiosi, («ripugnanti», li definisce nella lettera a Moravia in appendice a Petrolio…). Ma non era la borghesia nella sua attualità che poteva descrivere con matematica freddezza, aveva bisogno di un trauma che spogliasse i personaggi delle loro inossidabili certezze: questo “scandalo” lo provoca mettendo il borghese a confronto con il senso del sacro, anzi creando un corto circuito fra santità ed attualità.

Tenteremo allora di realizzare un percorso trasversale attorno alle opere di Pasolini che, a partire da Teorema, contengono questo elemento sacrale-distruttivo, che si materializza in forme diverse anche in PorcileSan Paolo ePetrolio.

Il tema della crisi e della “banalità del male” nel quotidiano, dentro il “nuovo totalitarismo consumistico”, è stato già fulcro di tutto il progetto Rooms, dove nelle analisi della borghesia attuate in chiave cinico-ironica da DeLillo, l’elemento traumatico era il compiere un atto estremo, come l’omicidio per «guadagnare credito vitale», per superare la paura della morte… in Pasolini la prospettiva si rovescia: è l’avvento di un fatto scandaloso esterno, quale l’irruzione dell’ospite, o una visitazione angelica, come in Petrolio, a provocare lo svelamento, la frattura, la perdita di controllo.

L’ospite, l’apparizione, ha dunque una presenza duplice: da un lato si carica di un’aura mistica, con precisi rimandi biblici, dall’altro va a rompere completamente le convenzioni delle relazioni sociali, specie rispetto ai più diffusi tabù sessuali, per dare al corpo tutto il potere espressivo che gli compete e che rimane tristemente represso, bloccato.

Ma se in Teorema i rapporti sessuali intrattenuti con l’ospite hanno per tutti un forte valore rivelatorio, in Petrolio l’allegoria assume un connotato decisamente pessimistico. «L’eccesso, il disordine sessuale, la rottura del tabù dell’incesto, non hanno più nulla di liberatorio». La sessualità acquista un segno inequivocabilmente sadiano, il Sade di una smania fredda, scientifica, ripetitiva che fa tutt’uno con la razionalità e l’ordine, inglobato nell’orrore nazista – e stragista-. È il Sade di Salò, di quella razionalità strumentale, sostanzialmente irrazionale, tesa esclusivamente al dominio, al POSSESSO.

Carlo, il protagonista di Petrolio, grazie al suo “doppio” vive il momento più radicale dell’alterità, trasformandosi in donna: fa così esperienza dell’essere posseduto, concedendosi al giovane guardarobiere Carmelo… (un altro “ospite” che compare in Come un cane senza padrone – l’evento performativo presentato al progetto “Petrolio” curato da Mario Martone a Bagnoli di Napoli, dove abbiamo lavorato proprio sugli appunti da 59 a 62 del romanzo…). Simile esperienza è vissuta dal padre industriale in Teorema che si lascia possedere dall’Ospite, ancora in un prato, «…egli ha sempre, per tutta la vita, posseduto; non gli è balenato neanche mai per un istante il sospetto di non possedere…», ed anche la madre si abbandona prima all’ospite, poi con disperazione, a giovani estranei…

C’è un sorprendente passaggio da una smania di tipo sadico ad una passività di tipo masochistico.
«L’essere posseduti è una esperienza cosmicamente opposta a quella del possedere. Tra le due cose non c’è rapporto; non sono semplicemente il contrario l’una dell’altra, (…) D’altra parte è fuori discussione che il possesso è un Male, anzi, per definizione è Il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene, come Grazia, vita allo stato puro, cosmico».
(Da Petrolio, appunto 65)

L’ambiguità di questa riflessione sul potere sarà al centro del progettoL’ospite, e tutti i personaggi che lo popoleranno porteranno in sé questa spaccatura, questa sorta di frattura interiore.
Anche la definizione che dà dell’ospite Pasolini stesso ricalca questa angolazione:
«Questo personaggio ha finito col diventare ambiguo, a metà strada fra l’angelico ed il demoniaco. Il visitatore è bello, dolce, ma ha anche qualcosa di volgare (non per niente è borghese anche lui). Ciò che è autentico invece, è l’amore che suscita, perché è un amore fuori dai compromessi, fuori dei patti con la vita, un amore scandaloso, un amore che distrugge… questo personaggio non è nemmeno identificabile con Cristo, semmai è più un visitatore silenzioso inviato da Dio come nell’Antico Testamento…».

È una figura silenziosa, e questo silenzio ci colpisce: Pasolini dichiara cheTeorema era nato come testo teatrale, poi «… ho rinunciato a fare Teorema in teatro perché il silenzio, cioè quel vuoto, era infinitamente più adatto al cinema; se lo avessi fatto in teatro questo dio avrebbe parlato, e che cosa avrebbe detto? Cose assurde. Invece adesso parla attraverso gli altri, attraverso la presenza fisica pura e semplice, cioè il massimo della cinematografia».
(Da una intervista rilasciata ad Adriano Aprà – da Per il cinema, I Meridiani, Mondadori, 2001).

Confessiamo che invece quello che più ci affascina è proprio il tentativo di trasporre questo desolato silenzio in teatro, così come la presenza fisica pura e semplice degli attori, anche se comprendiamo le perplessità di Pasolini, che nelle sue esperienze teatrali partiva comunque da una essenziale priorità della parola.

Per Motus è fondamentale tentare delle ibridazioni, e vorremmo spingerle andando oltre la stessa storia di Teorema, incentrando tutto lo spettacolo attorno al concetto di Ospite e di ospitalità per lasciar visitare noi stessi da quell’ospite assoluto e geniale che è Pasolini stesso.

Ecco: Motus apre le porte a questo nuovo venuto e lascia che egli ne sconvolga i processi creativi …un altro legame con Rooms, anche se ora l’attenzione, in un certo senso, si sposta dal contenitore, la stanza d’albergo, al contenuto, ovvero l’ospite.

Il Grido

In Pasolini l’ossessione per l’oralità giunge a toccare tutti gli estremi: «egli sembra voler offrire un repertorio completo delle possibili emissioni vocali: respiri affannosi, rantoli, risate, sorrisi, declamazioni, sottotoni, pianti, singhiozzi, sussurri, borbottii, letture, lamenti, interviste… (da Voce e silenzio nel cinema di Pasolini, Giacomo Manzoli, Pendragon, Bologna, 2001).

Il grido, per usare una bella definizione di Michel Chion, è uno squarcio nel tempo, rende palpabile un fantasma di assoluto sonoro, è costante ossessiva anche nella scrittura poetica di Pasolini, dove voci “neanche umane”, celano richieste d’aiuto… Questo ossessivo sforzo vocale pare dirigersi verso una disperata fuga all’indietro, il grido non è più contrapposizione, ma allegoria di un bisogno utopico di re-immergersi in una concretezza arcaica e barbara, ma reale, contrapposta alla piatta crisi della normalità borghese, questa sì, davvero terrificante.

Affiora il motivo metastorico del deserto, che in TeoremaPorcileSan Paolo ePetrolio acquisisce un forte valore simbolico, facendosi segno dell’abbandono progressivo del mondo alla ricerca di una fondante solitudine interiore «… Come è per esempio il caso del padre in Teorema, che dopo aver donato la sua fabbrica trova attorno a sé il vuoto; in un certo senso il deserto è sì una forma preistorica, ma soprattutto questa forma è tale che ci si ritorna nel momento in cui si abbandona la società…». (Dall’intervista rilasciata a G.P.Brunetta).

Il mondo primitivo del Dopostoria è spaventosamente simile a quello mitico di prima della storia, dal quale proviene Medea, fondamento di quell’urlo tremendo ed inorganico che racchiude in sé tutte le grida della poetica pasoliniana, ed è quello con cui termina il romanzo Teorema.

Tutti i nostri spettacoli sono attraversati da un urlo, a volte è deforme, eccessivo, come quello di Bacon in Catrame, a volte è di follia bestiale, assoluta, come nell’Orlando Furioso, a volte è di dolore struggente che si fa canto, come in Orfeo o di esaltazione mistica come in Visio Gloriosa… in Twin Rooms è esplosione d’insofferenza, rivolta improvvisa verso l’incosciente esistenza borghese… è un grido che dice anche basta.
È come se il grido di Pasolini in Ah, miei piedi nudi!, concentri in sé tutte le grida esplose dentro Motus in questi ultimi anni:

Ad ogni modo questo è certo: qualunque cosa
questo mio urlo voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.

… ed è all’eco di questo urlo di Pasolini assassinato da ben altri moventi del “delitto sessuale” che vogliamo dare voce, quest’urlo che ancora risuona all’idroscalo di Ostia, (anche se nessuno pare averlo udito…), rimbomba assordante in tutte le periferie del mondo, e non si quieta e non si deve acquietare, finché continuano ad esistere tali vergognose ingiustizie.

Deserto: il vuoto scenico

Lo spazio in cui l’urlo risuona è dunque un luogo vasto, aperto: il deserto.
È simbolo di solitudine e negazione della storia, cui l’uomo ricorre non per cercare il vuoto, ma quando scopre il vuoto dentro ed intorno a sé: ci corre in mezzo il cannibale Pierre Clementi in Porcile, solitario, contro il fondo nero del vulcano; e ci corre in mezzo anche Massimo Girotti in Teorema, disperato, come se da quella situazione di nudità, dove i pregiudizi, i classismi sono caduti, Pasolini volesse (ri)cominciare.

Ma nei deserti dell’Oriente ci va anche in spedizione Carlo, il protagonista diPetrolio, alla ricerca del nuovo “vello d’oro”, il petrolio, l’oro nero… ed è proprio nel deserto che oggi si disputa la guerra criminale per il controllo dell’intero pianeta, è nel deserto che corrono i carrarmati statunitensi, che vengono scavate trincee, che vanno in putrefazione i corpi atterrati dai bombardamenti, che bruciano i pozzi petroliferi per mesi… Tutto viene dal deserto e tutto pare risolversi in esso, fra la sabbia ed il vento caldo.
Il maggior grado di presenza è l’assenza.
«Ah miei piedi nudi, che camminate sulla sabbia del deserto…».
C’è la possibilità di percorrerlo a piedi, miticamente, ma è altrettanto potente andarci in macchina: altro tempo, altra visione.

Siamo andati in Tunisia a fare delle riprese nel Sahara ed allo straordinario lago salato Chott El Jerid: è stato necessario andare, stare un po’ nel deserto, prima di immergerci nell’ultima fase di lavoro a Rennes, dove L’Ospite debutta il 20 aprile 2004.

Ogni nostro nuovo spettacolo è sempre preceduto da un viaggio: Los Angeles ed i deserti americani per Rooms ed ora il Sahara e le periferie tunisine, poi quelle napoletane e romane, sino alla nebbia della Bassa Pianura padana perL’Ospite
Un viaggio in automobile, con una staffa con tre telecamere che registrano in sincrono il paesaggio in movimento dal cruscotto: un grande trittico-cinetico-documentario, che riproduce – scomponendolo – quel “Fuori” che ha sempre faticato a comparire nei nostri spettacoli.

Come un viaggio del resto è andare fra le parole, i dati e gli “appunti per” di Pasolini: occorre lasciarsi trasportare, lasciarsi in qualche modo possedere.

Abbiamo deciso di partire da una terra di nessuno, ed è forse in questo terrain vague che faremo ritorno, dopo aver tentato di fare questo viaggio, o meglio “schema di viaggio”, in automobile: Motus e Pasolini, insieme, provando a sovrapporre gli sguardi che, sostanzialmente, non sono mai stati tanto distanti.
Un viaggio che parte da Teorema e giunge a Petrolio.
Un viaggio che termina, che viene interrotto dalla morte, la sola in grado di compiere il definitivo, scioccante montaggio «sull’inarrestabile piano sequenza della vita. (…) È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché viviamo, manchiamo di senso (…) la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita».
C’è il deserto di sabbia d’Oriente o d’Africa, luogo di esperienze mistiche e tragedie umane, ma ci sono anche i deserti urbani, le terre di nessuno, i confini labili fra città e campagna, tra rurale e industriale, dove gli effetti della globalizzazione forzata e di una certa spregiudicata speculazione edilizia, tutta italiana, hanno partorito il loro mostri senz’anima, depositandoli sul terreno come alieni, senza prima né dopo.

«Come costellazioni, questi gruppi di abitazioni, si spingevano dal deserto desolato verso costellazioni più fitte. Ma il silenzio non era meno fondo che nel deserto. Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto».
(Da Petrolio, La nuova periferia, appunto 121)

Stanno lì, e paiono domandare perché, certi folgoranti centri commerciali o palazzoni di città satellite che fingono di riprodurre dinamismi tipici dei piccoli centri urbani con una piazza e negozi, ma che mantengono sempre qualcosa di artificiale, forse artificioso, che li rende del tutto improbabili e soprattutto invivibili secondo dinamiche aggregative consuete. Ed è negli spazi lasciati vuoti dal cemento aggressivo che prendono vita mondi paralleli, sottoboschi umani, nuovi percorsi di relazione e scambio fra il deviante e l’equivoco, il degradato e l’ultra moderno. Cosa è vero, cosa no. Dove risiede ora lattualità, al centro o nella periferia?

«Nessun deserto sarà mai più deserto di una casa, di una piazza, di una strada dove si vive millenovecentosettanta anni dopo Cristo. Qui è la solitudine. Gomito a gomito col vicino, vestito nei tuoi stessi grandi magazzini, cliente dei tuoi stessi negozi, lettore dei tuoi stessi giornali, spettatore della tua stessa televisione, è il silenzio.
Non c’è altra metafora del deserto che la vita quotidiana».

(Da Appunti per un film su San Paolo, 1968/74)

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