Twin Rooms

2002

Uno spettacolo ideato e diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

con Vladimir Aleksic, Renaud Chauré, Eva Geatti, Dany Greggio, Caterina Silva, Damir Todorovic

editing audio Enrico Casagrande

fonica Carlo Bottos

luci Daniela Nicolò in collaborazione con Luigi Biondi

operatori Barbara Fantini e Daniele Quadrelli

progettazione scenica Fabio Ferrini

costruzione e direzione tecnica Tommaso Maltoni con la collaborazione di Dany Greggio

una produzione Motus e La Biennale di Venezia

in collaborazione con Teatro Sanzio/Comune di Urbino, Kampnagel Internationale Kulturfabrik di Amburgo, Santarcangelo dei Teatri, Infinito ltd Gallery di Torino, Xing di Bologna

con il sostegno di Eti, Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna

© Riccardo Persona

Twin Rooms è uno degli episodi del progetto Rooms: la camera d’albergo e set cinematografico che ha debuttato nel febbraio 2002 al Teatro Piccolo Arsenale di Venezia in occasione della manifestazione “Temps d’Image. Smascheramenti di immagini e di corpi in tempo di Carnevale” organizzata da La Biennale di Venezia che dello spettacolo è anche coproduttore.

La vicenda è tratta principalmente dal romanzo White noise di Don DeLillo: una vicenda che è però continuamente frammentata, sincopata, tagliuzzata come in un montaggio delirante in cui non ha senso ricomporne la narratività. La “Twin room” sottolinea il potenziale della stanza d’albergo a essere vissuta per un tempo breve e quindi di esacerbare l’idea di costruzione di una pièce teatrale, di uno spettacolo per frammenti che composti insieme in una partitura possano fornire un’idea di evoluzione, di storia irraggiungibile e inafferrabile che si dilata e si contrae allo stesso tempo in forme e dimensioni plurime.

L’idea del frammento e della storia aperta permettono allo spettatore di leggere effettivamente la propria vicenda costruendo un proprio spettacolo, inoltrandosi in un’intimità possibile nella quale riconoscersi. Con Twin Rooms i Motus riflettono sul concetto di finzione cinematografica (come del resto era accaduto in Orpheus) e avviano una fase di ricerca sull’immagine digitale, affiancando alla camera d’albergo appositamente costruita, una seconda stanza identica, ma totalmente virtuale, proiettata su schermo. Le due stanze – che presentano angoli smussati e tondeggianti come nel miglior stile anni Sessanta – sono da tutti i punti di vista l’immagine sfalsata dello stesso luogo e della stessa azione e mettono a confronto il pubblico con la visione diversificata e binoculare dello stesso oggetto. La cornice di questo grande doppio schermo richiama un ulteriore livello drammaturgico: la presenza di una telecamera nelle mani di un attore permette di focalizzare un particolare della scena, un occhio interno (voyeur) e digitale che produce un effetto di “inquadratura” (di cui le pareti laterali sarebbero i bordi) mentre lo sguardo dello spettatore, costretto a inseguire da una stanza all’altra i personaggi, diventa l’occhio mobile della macchina da presa.

Si crea così una triangolazione di sguardi che cattura e avvicina quasi pornograficamente i corpi dei personaggi al pubblico sin nel dettaglio più intimo e scabroso, il primo piano che inevitabilmente in teatro si perde. Su queste inquadrature si sovrappongono frammenti video montati in precedenza (durante le prove delle stesse azioni), creando ulteriori livelli di lettura, fatti da tante piccole microstorie, schegge di esistenze reali e immaginarie. Le brevi vicende sono state concepite come azioni continue e i passaggi da un episodio all’altro sono stati pensati come veri e propri raccordi. Arrivare al video è stato un percorso necessario, una modalità che ha integrato ed esplicitato i meccanismi di narrazione dello spettacolo attraverso la tecnica del film: tagli, dissolvenze incrociate, effetti tendina, sequenze accostate insieme, montaggio. Il suono svolge un ruolo fondamentale, come del resto si era già rivelato negli spettacoli precedenti. Non si tratta semplicemente di una colonna sonora ma di una vera e propria drammaturgia sonora completamente integrata allo stesso spettacolo.

Non sono presenti momenti di silenzio: quando la musica scompare e i suoni di acqua, telefono, passi si affievoliscono, rimane sempre, come sottofondo il “rumore bianco”, quello che Don DeLillo in (appunto) White noise definisce come la morte dell’Occidente, il rumore della civilizzazione, il rumore del consumismo.

Se in Vacancy Room ci si interrogava sulle possibilità e il senso delle storie oggetto della rappresentazione, in Twin Rooms protagonista è lo statuto stesso della rappresentazione. Allo schermo è affidato un duplice compito: da una parte amplificare il dettaglio attraverso le riprese in tempo reale, mostrando perciò espressioni, sguardi e frammenti che la visione teatrale tende a celare, e dall’altra confondere e mescolare i piani temporali, attraverso materiali preregistrati che mostrano ciò che è già accaduto, che poteva o potrebbe accadere, che forse accadrà. Si instaura così tra scena e video un serrato e sorprendente gioco dialettico davvero inedito, che affascina e inquieta.

Tra Elvis Presley e Jimi Hendrix, i frammenti dei dialoghi sono estratti dall’opera di Ellroy (L.A. Confidential), Bret Easton Ellis (American Psycho) e Don DeLillo (Americana), scrittori che hanno descritto l’atmosfera angosciante della metropoli.

Di tanto in tanto un cameraman interrompe sulla scena e la voce off del regista suggerisce agli attori come recitare. Scavalcando la quarta parete (e inquadrando addirittura il pubblico) il cameraman mette lo spettatore in una posizione di incertezza rispetto alla fruizione alla quale sta assistendo: spiamo una stanza d’albergo? Guardiamo uno spettacolo teatrale? O assistiamo a un film che parla della realizzazione di un film?

Gli attori recitano in una dimensione microscopica (per la macchina da presa) e macroscopica (per il pubblico in sala). Doppia prospettiva raramente sperimentata nell’arte che mette a dura prova le capacità degli attori, continuamente in bilico tra una gestualità esasperata e un dettaglio accennato.

E proprio gli attori sono le figure che popolano queste stanze gemelle, figure anonime e aleatorie, dall’incerta identità, dai contorni infiniti. Cate e Jack sono ormai una coppia in crisi: lei tradisce il marito con un altro uomo all’interno di una stanza di motel rosa. Alle accuse del coniuge («Ti ha penetrata! Si è insinuato dentro di te!»), risponde fredda «Nessuno è stato dentro nessuno. Ero distaccata, si trattava di una transazione capitalistica. Io ho paura di morire, è per questo che sono stata con lui». E la paura di morire (o forse di vivere) è proprio il tratto caratterizzante di queste patinate figurine che su tacchi troppo alti si muovono in uno spazio troppo stretto, che a fatica permette loro di respirare. E mentre due uomini parlano del rapporto tra sesso e soldi («Faccio sesso con gli uomini solo per soldi» afferma l’uno. «Io ti amo e tu non mi paghi» risponde l’altro) un assente regista offre consigli e suggerimenti provenienti da una voce off, spiegando come recitare le battute o cosa pensare per entrare nel giusto stato d’animo: «questa scena è incentrata sull’abbandono. Che cosa è l’abbandono? è la morte!». Ancora la morte è protagonista del dialogo – ripreso dallo spettacolo precedente – sull’omicidio inteso come potenziamento dell’individuo che compie l’omicidio:«Tu sei un assassino o uno che muore?», «è da tutta la vita che muoio».

Al termine della vicenda, Jack uccide l’amante della moglie che scopre essere un suo amico. L’omicidio si compie in una modalità che è tutta verbale, in cui la separazione tra parola e immagine spiazza e disorienta. «Mi siedo e succhio il buio, ho il buio in bocca e lo succhio. è tutto quello che ho e mi appartiene. Et voilà, c’est fini».

Presentazione a cura di Patrizia Bologna

Note di regia

Stanze gemelle, vicine, affiancate. Due luoghi, due forme espressive messe a contatto, a confronto: i due volti del teatro di Motus.

Sino ad ora abbiamo sempre e solo cercato di innestare all’interno della composizione scenica le procedure tipiche del montaggio filmico, di elaborare spettacoli in cui la linearità del tempo teatrale fosse ossessivamente fratturata e depistata, spostata su altri versanti, territori di confine fra le forme espressive.

Twin Rooms, due stanze: la “Vacancy Room” solitaria, stanza d’hotel perfetta e super attrezzata, asettica e inquietante, rosa, lucida… “Un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme, isola di solitudine, boudoir per incontri veloci, lontani dal quotidiano, per attimi di affinità momentanea e per ogni genere di trasgressione, di cui però viene assolutamente cancellata, lavata via, ogni traccia e tutto ricondotto all’anonimato (s)confortante della room. Una sorta di scatola ottica di sei metri per quattro di profondità, luogo di esposizione crudele per gli attori, luogo assoluto dello sguardo volto a esasperare ancor più la vocazione voyeuristica dello spettatore.” [1]

Solo una camera da letto e un bagno a ospitare frammenti d’esistenze vaganti, vacanti o comunque in viaggio, “con quell’odore che i treni ti lasciano sulle mani”… Tentativi di dialogo dall’ultimo Pinter e Sarah Kane, discorsi amorosi come “cronache lette da uno speaker”, pensieri come citazioni letterarie, in prima persona, astratti dalle pagine di Don DeLillo e Breat Easton Ellis, i due autori americani attorno alla cui opera tutta l’atmosfera della room è modellata.

Room come set, dove cinema e letteratura convergono, collidono e si fondono.

Poi c’è lo schermo delle stesse identiche dimensioni (6m x 3m di altezza), che riproduce, con le linee di cornice, la parete mancante della room, sezionata da un divisorio fra bagno e camera. La “room digitale” è ricreata grazie a due retroproiezioni affiancate (una per il bagno e una per la camera da letto).

Può essere affiancata alla stanza reale producendo l’effetto finale di una sorta di grande cinemascope di dodici metri di lunghezza, oppure può essere sovrapposta creando l’effetto di un “hotel a due piani” di 6 x 6 metri di altezza.

Ricerchiamo una nuova forma di narrazione scenica: i due linguaggi, quello teatrale e quello video, non vengono sovrapposti secondo tecniche di mixaggio, ma affiancati, interfacciati, per narrare, parallelamente, le stesse storie.

Quindi un doppio film, o uno spettacolo diviso in due?… O un film e uno spettacolo teatrale con svolgimenti paralleli?

Non ci poniamo il problema della definizione che deleghiamo alle modalità percettive dello spettatore, come sempre allo sguardo del pubblico lasciamo libertà di ricomporre i frammenti, di cogliere gli sbalzi temporali e le sospensioni che tanto hanno a che fare con il nostro vivere, che acquistano unità solo se connessi alla “non narratività” della nostra stessa esistenza.

“Si vive di bruschi salti senza coerenze, in una confusione assoluta fra i fatti più ingombranti e impercettibili sguardi rapiti nella folla che ci graffiano dentro. Nessuna logica di piani e sviluppi. Io non so è tutto quello che so. Motus non gioca più, osserva e registra come in un arido verbale. Riempire gli spazi bianchi, ricucire la trama è lasciato a chi osserva. L’opera frammentaria si fa poesia al momento in cui obbliga a completare le sue curve mutile”
(Gòmez Dàvila) [2]

Twin Rooms è per Motus approdo espressivo senza precedenti rispetto alle possibili congruenze/incongruenze fra video e teatro, da anni indagate sulla scena artistica internazionale. Uno spettacolo sul tempo attuale, sul vuoto esistenziale con cui e su cui fondiamo il nostro essere qui ed ora, al di là delle abusate categorie della verosimiglianza come del volgare reality show televisivo… Storie, momenti di vita scritti da giovani drammaturghi e narratori contemporanei, dal linguaggio secco e naturale, intriso di sferzante ironia e cinico minimalismo.

Storie anestetizzate, spaesanti, assolutamente non anedottiche, ambientate nel tempo/non tempo di una stanza d’albergo, in una sorta di presente continuo duplicato, doppiato dalla presenza dello schermo attraverso cui le stesse scene, gli stessi dialoghi, sono filtrati dallo sguardo della m.d.p. che allarga e svela significati nascosti o sottintesi, “senza riserve per squallori e bassezze, senza riserve per attimi di infinitesima poesia”. L’Occhio Belva della telecamera penetra dentro gli oggetti e gli attori, rivelando dettagli, sfumature delle espressioni, oppure taglia, compone, ricuce salti temporali mostrando flash-back o retroscena di quello che continua ad avvicendarsi nella immutabile stanza d’albergo. Schermo come affondo dunque, come ulteriore livello drammaturgico e narrativo; schermo come dispositivo di decodificazione dell’accadere scenico, che penetra proprio là dove il teatro, con la sua magia, non può giungere: il dettaglio.

Twin Rooms: macchina scenica basata su un complesso sistema tecnologico digitale che opera con leggerezza e discrezione far i meandri della rappresentazione, senza appesantire, ma agendo con quell’atletismo di cui sempre ci siamo muniti per slittare fra i generi e le rigidità delle forme teatrali.

“Il tempo sembra passare, il mondo accade, gli attimi si svolgono”.
Don DeLillo, The body artist

[1] Attraversamenti. Teatro e Cinema in room 969 di Motus, Anna Maria Monteverdi [2] L’hic et nunc della stanza-scena di Gilberto Santini

© Max Botticelli

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© Riccardo Persona

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