Una stanza d’albergo composta da due vani. Pareti rosa e letto con telo rosso, una cassettiera, una poltrona. La portafinestra che dà sull’esterno lascia intravedere una vegetazione artificiale, illuminata da atmosfere a neon verdastre. Il bagno adiacente è composto da lavabo, bidet, water e vasca in plexiglas trasparente. La totalità della stanza assume un aspetto anni ’60, vagamente kitsch eppure glamour. Fa pensare a certi film di David Lynch, a certi climi alla Andy Warhol, a certe immagini di Sophie Calle. In questa suite si incontrano vite spezzate, identità espresse o mal celate, all’interno di un train de vie che ricorda la liquidità di Zigmunt Baumann. Esistenze rarefatte, corpi perfetti, dialoghi singhiozzanti si fondono con la estraneità e plasticità dello spazio. In una eterna frequenza di docce seminude o semivestite, si intravedono i personaggi – o meglio le figure – che popolano questo triste quanto patinato motel. Un uomo attende l’arrivo di Maria, donna che possiede «una bocca buia, che mi ha fatto pensare alla bocca di un pesce». Ma quando lei arriva, con nonchalance si appresta a un bidet. Mentre lei in abito rosso orientaleggiante posa da gran diva davanti all’apparecchio fotografico di lui, emerge con estrema forza il contrasto tra la fredda gestualità e le voci registrare insistentemente affettate da doppiaggio da cinema dei telefoni bianchi.
Le voci off simulano i pensieri dell’uomo che «più di una volta ho pensato di ucciderla. Ma perché?» in uno stream of consciousness angosciante e tagliente.
Altre figure popolano la stanza accanendosi a parlare attraverso dialoghi di domande senza risposta, avviando conversazioni a senso unico, mescolando parole e pensieri.
I dialoghi sono sincopati, talvolta in sincrono talvolta in asincrono. Un uomo dall’accento straniero chiede a una bionda in camicia da notte «Una volta ero un ragazzo normale. Tu sei mai stata una ragazza normale?». Davanti a tre figure maschili i cui contorni si sfumano fino a confondersi, Gracy parla dell’assenza di ritmo nella conversazione, vero problema della relazione di coppia.
«Mi piace rintanarmi nelle suites d’albergo. Mi piace spegnere le luci ed accendere l’aria condizionata. Mi piacciono gli ambienti raccolti a temperatura controllata. Mi piace starmene seduto al buio e lasciar scorrazzare i pensieri. Avevo la serata libera e nessuna voglia di andarmene in giro per la città. Ordino una cena in camera ed una grossa cuccuma di caffé. Spengo le luci e lascio che il pensiero di lei mi porti in giro» (J. Ellroy, I miei luoghi oscuri).
Un uomo in bagno con un grande coniglio di pezza tra le braccia funge da specchio a un uomo nella stanza accanto con un bicchiere di whisky tra le mani e i loro pensieri si uniscono. L’amore e la morte sono i cardini delle conversazioni. Le figure provano paura sia dell’una che dell’altro. Li temono e ne sono attratti. La morte è vista come una transazione commerciale in cui l’omicidio dona potenza vitale all’assassino. L’amore è un sentimento che coinvolge sempre e solo una delle due parti in causa.
E tra crisi bulimiche e svenimenti si consumano questi frammenti di esistenze, questi pezzetti di vite, immagini intrinsecamente doppie intrappolate in un solo vuoto e che troveranno uno sfogo in Twin Rooms.
«Nella camera a fianco qualcuno ascolta il disco dei Radiohead, è un pezzo che mi mette tristezza… Lui sa che voglio che se ne vada. Gli è molto chiaro; vestiti, vattene. Sbadiglio. Nella camera a fianco il disco salta, comincia da capo. (…) sono sorprendentemente calma, tranquilla in questo strano limbo tra sobrietà e ubriachezza. C’è come un velo che copre questo motel, illuminato da un’altra luna piena. Mi tocco il seno, poi con vergogna, arrossendo sposto la mano. Mi chiedo cosa non è andato. Butto la sigaretta nel cesso e torno a guardare fuori. Di lui non c’è più traccia. Ora sono veramente sola. Cerco di dimenticare il battito del mio cuore e non ci riesco e sto male. Mi faccio un bagno» (Bret Easton Ellis, Le regole dell’attrazione).
presentazione a cura di Patrizia Bologna
Note di regia
“cerco una forma promiscua, di confusione conturbante fra corpo e spazio, interno ed esterno… cerco sobbalzo del tempo attuale, fra cataclismi politici e banalità del quieto vivere… metto sul palco una stanza d’albergo asettica e confortante, rosa, lucida, con un taglio, una parete mancante… e lì su quella soglia, fra set e vita, mi interrogo sulla necessità del teatro”
Room, stanza chiusa / luogo aperto, vuoto: vacancy.
Spazio da abitare, che contiene, ma non trattiene, che si fa solo assente ricettore d’esistenze vaganti, o vacanti, comunque in viaggio, … con quell’odore che i treni ti lasciano sulle mani. Ne’ miti ne’ eroi, gente, che sta, si adagia sul letto, lo stesso letto dove giorni prima forse qualcuno e’ morto, ha deciso di porre fine alla propria vita li’, fra quelle confortanti pareti, o ci ha fatto l’amore, o si e’ sentito solo…
Non c’è una storia, ma tante, diverse, bizzarre ed impossibili storie… reali, inventate, rubate al cinema od alla letteratura, tutte comunque racchiuse e narrate in una stanza d’albergo… ambientate lì, all’interno, fra i rumori del piano di sopra, il traffico attutito della strada ed i litigi dei vicini…
Micropièces.
Ritratti di varia umanità e violenta real life, senza riserve per squallori e bassezze, senza riserve nemmeno per attimi di piccola, infinitesima, poesia.
Microcosmi.
Momenti per monologhi allo specchio o dialoghi random con il compagno di stanza, con l’altro essere con cui si condivide forzatamente lo spazio… al telefono o con la reception… o con chi sta per arrivare…
Possibili variazioni infinite, probabilistiche.
Room come set, luogo della finzione cinematografica, che vive, proprio per la doppia connotazione, una forma di realtà nuova, violenta, dove esistenza ed oggettività fuoriescono dalle categorie “vero-falso” e tutti i componenti si scambiano, così come le coordinate spazio/temporali, in un gioco di incastri e destabilizzanti relazioni…
Room come sezione di sceneggiatura, dove cinema e letteratura convergono, collidono e si fondono. In questo spazio claustrofobo esplodono microrelazioni umane, tentativi di dialogo dall’ultimo Pinter e Sarah Kane… evaporano pensieri ossessivi, in prima persona, escursioni fra le pagine di Don De Lillo e Breat Easton Ellis: minimalismo e dissenso, disgusto anche.
” Venendo qui ci si adegua ad un determinato comportamento, – disse Mink.
– Quale? – Quello da camera. Il tratto distintivo di una camera è quello di trovarsi all’interno. Nessuno dovrebbe entrarci se non lo ha capito….entrare in una stanza significa adeguarsi ad un certo tipo di comportamento.”
Don DeLillo White Noise
Non c’e’ storia dunque, se ne possono ricostruire le dinamiche provando solo a ricucire i frammenti, gli indizi lasciati sul campo armandosi della stessa meticolosita’ cui ricorre Ellroy … Oppure ascoltando la descrizione puramente letteraria dei fatti, elencati nei particolari con precisione, da una voce fuori campo. Esercizio di matematica inventiva, dato che “i personaggi” che abitano la room non corrispondono piu’ a quelli dei testi e dei romanzi cui si e’ attinto per la loro costruzione… strano… (êtrange)… assemblaggio.
– E tu credi che queste storie siano vere?
– No.
– E allora perché le metti in giro?
– Per darmi tono, ovviamente.
– Per il gusto dell’estremo.
– Per il gusto dell’estremo. Per il brivido. Il furore esistenziale.
Underworld, Don DeLillo